Con scrittura ricercata e vivida, Valerio Varesi mette in scena un grande rifiuto: quello di far parte di un sistema paradossale che, in nome di un estenuante individualismo, condanna tutti all’omologazione. L’uomo è solo, ha con sé uno zaino, qualche indumento, pochi viveri. Per ogni metro percorso in salita, lasciandosi il bosco alle spalle, ha abbandonato un pensiero che lo legava al mondo.
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La famiglia, il lavoro, la casa. Ora che il ghiacciaio gli si mostra in tutta la sua imponenza, sa che il confine tra ciò che è stato e ciò che inizierà a essere è tracciato. Qualcuno, di fronte alla sua scomparsa, penserà a una disgrazia, altri a una fuga. Ipotesi tutto sommato plausibili, considerato quello che si porta sulla coscienza. Nessuno capirà la sfida primitiva che ha lanciato a se stesso: vivere in assoluta solitudine in un angolo ostile di mondo, facendo perdere le proprie tracce. E lì, dove la natura non contempla la compassione per il debole, attraverso la fatica e la sofferenza, ritrovare la propria umanità autentica, lontano da qualunque alibi, fossero anche gli agi che facevano di lui uno tra i tanti. Mette dimora su quelle montagne dove, durante la guerra, il freddo ha fatto più morti delle granate, e il ghiacciaio che sorveglia la valle diventa il suo fortino. Con l’aiuto di un piccone, ne scava le viscere fino a dare vita a un labirinto di gallerie di cui sentirsi padrone. Apparentemente immobile e docile, l’immensa distesa bianca sembra essere complice di quell’impresa unica e irripetibile. Finché vaghe tracce sulla neve gli insinuano il dubbio di non essere solo. Quando il ghiaccio gli restituisce tracce del passato, rendendolo testimone di una misteriosa vicenda, la sua determinazione vacilla. E nel momento in cui abbassa le difese, il mondo a cui si è sottratto è lì per prendersi la sua rivincita.